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04/03/2020

Caruso, amico mio

Quando entri in una di quelle stanze dimenticate di una casa grande come quella dei miei, non sai mai cosa aspettarti. Quando entri in una di quelle stanze dove sai di trovare di tutto, tra fogli di appunti più o meno sparsi e vecchi archivi, a volte ti capita di andar via con i ricordi. 

E tu, Caruso, che ci fai qui? Tra una pila di libri e gli appunti dell’università. Tra le ex ragazze e i vecchi amici. Tra i vecchi giornali e qualche cimelio di anni ormai andati (e anche di parecchio). Tra emozioni che mai si perderanno e ricordi che si erano ormai un po’ sbiaditi.
Caruso, amico mio, chi ti ha dimenticato qui? Finito nella polvere di una cassetta così senza apparente valore. Ma solo apparentemente insignificante.

Quando entri in una di quelle stanze dimenticate di una casa grande come quella dei miei, non sai mai cosa aspettarti. Quando entri in una di quelle stanze dove sai di trovare di tutto, tra fogli di appunti più o meno sparsi e vecchi archivi, a volte ti capita di andar via con i ricordi. E che ricordi.
Io ci sono entrato nel primo pomeriggio con un paio di pacchi di biscotti e qualche snack di frutta secca. Ne sono uscito senza, ma con lui sotto il braccio.

Io sono andato via con lui, Caruso. Altezza 20 cm, maglione blu a strisce bianche, pantalone giallo e scarpa da ginnastica, sneakers diremmo oggi, Converse forse all’epoca. Taglio di capelli lungo rigorosamente con la riga al centro. Una volta si chiamava caschetto. Mi assomigliava così tanto che era diventato il mio migliore amico. Oddio, migliore. Un talismano da cui difficilmente mi staccavo. L’avevo recuperato da un vecchio scatolo di mio fratello, lo portavo dovunque. Dalle cene con i miei quando avevo 5 o 6 anni alle feste dei miei compagni di scuola dell’elementari, nel borsone come portafortuna per le partite di calcio e nello zaino come amuleto per gli esami all’università.
Praticamente mi ha accompagnato per gran parte della mia vita, almeno fino ai 20. Però, Caruso, ormai hai quasi 30 anni. Sei la mia memoria. Sei i miei ricordi.
E io ricordo ancora?

Io sono andato via con lui, Caruso. Altezza 20 cm, maglione blu a strisce bianche, pantalone giallo e scarpa da ginnastica, sneakers diremmo oggi, Converse forse all’epoca. Taglio di capelli lungo rigorosamente con la riga al centro.

La merenda sana della nonna. Le mandorle sgusciate del nonno sotto l’albero al centro del piazzale della villa di campagna quando tutt’attorno si lavorava per la raccolta.
Il Super Santos, le porte con gli zaini, le partite in strada e “chi porta il pallone non va mai in porta”.
La casa al mare. Le prime ragazze. I primi baci sullo scoglio che, stesi, non si stava mica così comodi.
StreetFighter, OutRun e HangOn, 300x200 pixel in sala giochi e ci passi le ore dimenticando tutto il resto.
Il walkman in gita e la fidanzatina da “sediamoci all’ultimo sedile”.
“Anto, fai piano. Per me è la prima volta”. “Anche per me”.
Fare bollo a scuola. Andiamo al mare. Facciamo l’amore.
“Gianlù, che ci frega. È agosto. Andiamo in treno a Lecce. Qualche ora e siamo lì”. “Stazione di San Pietro Vernotico, comunichiamo ai gentili utenti che si è rotta la carrozza. Saremo costretti a sostituirla e ad una sosta di tre ore”. Il Liuk. Un altro Liuk. Un altro ancora. Perché il tempo passava e qualcosa bisognava pur mangiare.
Il viaggio in motorino per il 18esimo compleanno della tua nuova ragazza. I viaggi in Vespa di quel periodo: venti chilometri al giorno, dieci all’andata e dieci al ritorno, canterebbe Arigliano.
“Spegni la sigaretta che arriva mio padre”.
Quel quadro su fondo giallo in camera con If di Kipling e gli insegnamenti di papà e mamma: “Se saprai riempire ogni inesorabile minuto dando valore ad ognuno dei sessanta secondi”.
“A Chelsea con la metro arriviamo in 15 minuti. Qui al college è bello, ma andiamo a vivere Londra, dai. Il tecnico mi ha dato le password per sbloccare le porte. Stanotte ce ne scappiamo di qua”.
“Oggi la vinciamo. Con la 4 debutta Antonello. Dai, eh”. “Oh, ma come ha fatto l’attaccante a fare quattro gol, tutti lui”.
Grosso, Grosso, Grosso. Alzala al cielo, capitano.
Prendiamo la barca. La Sardegna, le vacanze.
“Hai un tumore al cervello”. “Non sarà facile, ma ce la faremo”. “L’operazione è andata alla perfezione”.
Sei la donna perfetta per me. Con quel ciuffo biondo. Vuoi sposarmi?
Sono in cinta, aspettiamo un bambino.
Che palle, non posso mangiare niente. Niente salumi, niente verdura, niente frutta secca in gravidanza.
Il pannolino. Le notti insonni. Le prime parole, i giochi. Le notti insonni. I primi passi, i giochi. Ancora notti insonni.

Quanti fastidi hai creato, quanto ti amiamo. No, non tu, Caruso. Ma quello che sta seduto accanto a me in questa macchina mentre lo accompagno a scuola.

“Papà”
“Eh. Oh. Che è?”
“E ti sei incantato, papà. Guida più veloce”.
“E calma è. Sei pronto a diventare grande”
“Papà, non fare il romantico, eh. Inizio il liceo, mica la prima elementare”

Caruso, sai, oggi accompagno mio figlio a scuola. Ci vogliono 15 minuti da casa. Lo porto al liceo. Il mio stesso liceo. Non l’ho forzato, l’ha scelto lui. Inizia ora il suo percorso di vita. Quella vera, quella dei ricordi.
Chissà se da ora in poi condividerà i miei stessi ricordi, se li reinterpreterà.
Chissà se ha un Caruso. Chissà chi è il suo Caruso. 

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